Bilanciare i fattori ESG è una difficile questione di equilibrio. Asset manager e investitori istituzionali si confrontano sulle sfide di una corretta integrazione del fattore 'S'.
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La sostenibilità è una partita che si gioca alla pari nell’integrazione dei tre fattori che ne compongono la sigla ESG. L’unione delle caratteristiche ambientali (‘E’ di environmental), sociali (‘S’ di social) e di governance (‘G’) all’interno della propria politica di investimento è un buon punto di partenza per selezionare le aziende in grado di supportare la transizione verso un’economia più sostenibile. Non tutti i fattori, però, sembrano avere lo stesso peso nell’approccio agli investimenti. “Siamo abituati a sottovalutare l’acronimo ‘S’ di ESG”, spiega Alfonso del Giudice, professore ordinario di Finanza aziendale dell’Università Cattolica del Sacro Cuore e direttore del Master in Finanza sostenibile di Altis. “Per le altre lettere abbiamo metriche più mature. La normativa è partita subito con la parte ambientale come primo rischio da modellare”, rimarca del Giudice, tra i partecipanti del panel dedicato al fattore ‘S’ nella prima giornata dei lavori del Salone SRI, per la prima volta in presenza a Roma.
L'equilibrio dei fattori
Bilanciare i fattori ESG è una difficile questione di equilibrio. “Il percorso verso la neutralità climatica può comportare un impatto negativo su alcune fasce di popolazione che lavorano nelle attività a impatto negativo, come l’industria fossile, per cui è necessario accompagnare la transizione con attenzione”, evidenzia Simona Merzagora, managing director di NN Investment Partners. “Forse la componente ‘S’ è la meno sviluppata all’interno dell’acronimo ESG”, continua.
Anche Michele Gambera, co-head of strategic asset allocation di UBS Asset Management ritiene che la “maggior parte delle persone quando parli di ESG pensi all’ambiente. Ma i rischi della componente ‘S’ sono molti”. Per Gambera si tratta sia di rischi reputazionali, che di problematiche più direttamente collegate a profitti e perdite. “Il modo in cui sono trattati i dipendenti è un rischio, perché il turnover di dipendenti è costoso: vi sono costi di selezione, costi di training ecc. ed è stato dimostrato che c’è più ricchezza nelle imprese in cui vi è maggiore diversità”, prosegue.
L'interesse degli investitori istituzionali
Tra gli investitori più attenti alla sostenibilità vi sono storicamente gli istituzionali. “Stiamo iniziando a maturare una consapevolezza adeguata degli strumenti che possano valorizzare la ‘S’ nel suo complesso, la più vasta e difficile da intercettare in una serie di azioni e strumenti che sono già all’interno della vita quotidiana dei fondi pensione”, rimarca Fabio Porcelli, presidente di Previdenza Cooperativa. “Abbiamo iniziato a chiedere una reportistica su gender equality, crescita sostenibile e rispetto dei lavoratori e emissioni di carbonio: si tratta di un primo tentativo per supportare la transizione. Ci siamo resi conto che non si può fare tutto subito: i fondi pensione italiani stanno iniziando a strutturare adesso la propria esperienza su questo tema”, aggiunge Porcelli ribadendo che il settore ha voluto “evitare l’effetto ‘vetrina’” ovvero il possibile rischio greenwashing per “costruire le fondamenta” dell’individuazione di meccanismi che possano portare a una s”elezione mirata delle aziende con un’analisi preventiva dei valori ESG”.
Come Porcelli, anche Claudio Graziano, presidente del Fondo Pensione a contribuzione definita del gruppo Intesa Sanpaolo, sottolinea le “difficoltà di un’oggettivazione del fattore ‘S’. Abbiamo attuato un’esclusione delle aziende che lo sottovalutano. Per un portafoglio l’attenzione al posizionamento ESG è rilevante e a lungo termine chi non ha sensibilità su questi aspetti porta le aziende in crisi. Ovviamente è più facile sui comparti attivi”.
Non la pensa diversamente Sergio Corbello, presidente di Assoprevidenza. Nel suo intervento Corbello ribadisce l’indiscussa centralità del fattore ‘S’ nel mondo della previdenza, sia per una questione “reputazionale” che “quantitativa: non dimentichiamo che l’omissione contributiva, ad esempio, rappresenta un costo per via del rischio magari di sanzioni e contenziosi giudiziari. Nel concetto di ‘S’ va considerata dunque anche una componente economica. Mi sembra dunque necessaria una verifica di tutto quello che diciamo essere ESG a prescindere dalle affermazioni che i diversi soggetti fanno”. Un approccio che “diventa complesso quando si guarda all’universo generale degli investimenti di un fondo pensione”, sostiene. Per questo Corbello lancia un appello rivolto alle depositarie: “Abbiamo avuto contatti con alcune banche depositarie, che hanno il dovere di controllare che gli investimenti siano compiuti in modo conforme al mandato di gestione conferito a ogni singolo gestore. L’idea che stiamo portando avanti e che sta trovando consenso da parte degli esponenti di banche depositarie è dare in capo l’onere della valutazione ESG alle banche depositarie. È chiaro che si allontanerebbero dai loro doveri, sarebbe una scelta opzionale, ma importante”.