Uno degli effetti collaterali della crisi di questi anni sono le conseguenze che ci sono state nella distribuzione del reddito, sia a livello nazionale sia a livello mondiale. Se guardiamo al nostro paese, l’Italia, apprendiamo dai telegiornali (ma lo viviamo anche sulla nostra pelle) che negli ultimi anni è aumentato il divario fra chi può spendere (e […]
Uno degli effetti collaterali della crisi di questi anni sono le conseguenze che ci sono state nella distribuzione del reddito, sia a livello nazionale sia a livello mondiale.
Se guardiamo al nostro paese, l’Italia, apprendiamo dai telegiornali (ma lo viviamo anche sulla nostra pelle) che negli ultimi anni è aumentato il divario fra chi può spendere (e anche molto), e chi ormai è alla canna del gas.
Va da sé che la disuguaglianza è diventata un tema centrale nella coscienza dei cittadini. La pace sociale ha bisogno di una certa dose di uguaglianza, diversamente si sfilaccia il tessuto sociale e si è spinti a vedere ciò che non funziona e ad assumere posizioni estremiste.
Io la chiamo “La guerra dei poveri”.
Curiosando sul sito dedicato alla finanza etica
"I Diavoli" mi sono imbattuta in un ricordo dell’esame di statistica,
il coefficiente di Gini, che misura la disparità di reddito e la polarizzazione della ricchezza. L’indice di Gini è un numero compreso tra 0 ed 1:
- Valori bassi del coefficiente (vicino allo 0) indicano una distribuzione abbastanza omogenea;
- Valori alti del coefficiente (vicino a 1) indicano una distribuzione più diseguale.
Se l’indice si avvicina troppo all’1 (ricchezza concentrata) è a rischio la salvaguardia della pace sociale. Data la struttura dell’indice, una differenza di pochi centesimi di punto si traduce in differenze di reddito significative.
L’Italia ha un coefficiente di Gini pari a 0,321, ed è tra i paesi che registra le maggiori disuguaglianze nella distribuzione dei redditi. L’indice è superiore sia alla media dei 27 paesi UE (insieme ai paesi del Sud e dell’Est dell’Europa), sia alla media di tutti i paesi OCSE. Dal 2009 ad oggi l’indice è aumentato, anche se le radici della disuguaglianza italiana sono assai più lontane perché è dai primi anni 90 in avanti che l’aumento delle disparità è stato costante. Inutile quindi dare la colpa alla crisi.
Un aspetto legato alla crescente concentrazione dei redditi nelle mani di pochi è che la gente non crede più che l’impegno venga ricompensato e guarda con sospetto alla ricchezza per i dubbi su come uno se l’è procurata. Si è passati dall’invidia dello status, alla rabbia per i dubbi sul funzionamento del sistema capitalistico. Anche gli economisti, che dovrebbero essere esperti nel capire e studiare i fenomeni economici e capaci di toglierci questi dubbi, oramai si sono arresi di fronte all’imprevedibilità degli stessi. Con l’avvento della finanza e della sua supremazia sull’economia reale, con l’assimetria informativa e la mancanza di regole, tutti gli schemi sono saltati, e le loro previsioni economiche valgono poco più di quelle metereologiche.
Lo sdegno nella popolazione aumenta perché la percezione è che i ricchi non si siano meritati la loro posizione, ma che se la siano procurata:
1) per motivi illeciti,
2) perché il sistema capitalistico li ha premiati a spese degli altri,
3) per entrambi i punti.
Questo vale in tutti i paesi del mondo, Stati Uniti compresi, patria della meritocrazia. Qui in Italia, dopo le prime scorribande della Guardia di Finanza a Cortina e a Porto Cervo, i ricchi sono diventati molto più “low profile”, cioè più riservati. Non è che non si godono i soldi, ma cercano di farlo al riparo da occhi indiscreti, perché in effetti la ricchezza, per i motivi detti sopra, sembra che sia diventata più una colpa che un merito.E io non la vedo come una cosa positiva.
A peggiorare la situazione c’è aspetto secondario e curioso delle nuove dinamiche economiche e sociali, ovvero il fatto che si formano sempre più coppie fra percettori di reddito dello stesso livello. Come dire: neanche la favola di Cenerentola viene più in nostro soccorso.
Tutto questo vale all’interno del sistema paese, ma cosa succede se analizziamo la situazione a livello mondiale? Sembra un paradosso ma, mentre nella maggior parte dei paesi le disuguaglianze sono cresciute, nel mondo sono diminuite.
Negli ultimi decenni diverse migliaia di persone nel mondo in via di sviluppo, specie in Asia, sono uscite dalla povertà estrema. Praticamente lo stesso meccanismo che ha fatto aumentare le disuguaglianze nei paesi ricchi e che ha fatto sparire la classe media, ha innalzato il reddito delle fasce estreme della popolazione mondiale. A causa della globalizzazione e della concorrenza a basso costo, il reddito pro-capite dei paesi in via di sviluppo è aumentato molto più velocemente rispetto alle economie avanzate. E il numero di persone che vivevano in condizioni di povertà assoluta si e drasticamente ridotto, a costo di diventare moderni schiavi per lo sfruttamento con cui ripagano questo “privilegio”.
Ma i paesi emergenti devono valutare attentamente come crescono e cercare di arginare ladisuguaglianza, che è prioritaria rispetto alla crescita, o comunque l’una non può prescindere dall’altra. Altrimenti si finisce come la Cina, che è diventata la prima potenza economica mondiale, ma che al suo interno ha aperto un baratro infernale fra le capacità di reddito dei cinesi più ricchi e quelle dei cinesi più poveri. Pechino deve prestare particolare attenzione al coefficiente di Gini, che nel 2013 ha raggiunto quota 0,473 attestandosi ben al di sopra della soglia di salvaguardia della pace sociale.
La crescita vertiginosa di un intero paese non ha coinciso con quella di buona fetta del suo miliardo e mezzo di abitanti. Un’amara soddisfazione.