Thomas Leys, investment director di abrdn, spiega perché il target Net Zero entro il 2050 non è un indicatore adeguato. Lo è invece la spesa in conto capitale per la decarbonizzazione.
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Le aziende sono coscienti della sfida da affrontare e la proliferazione di obiettivi aziendali di raggiungimento dello zero netto entro il 2050 negli ultimi anni è stata notevole. Gli investitori lo considerano giustamente un attributo positivo dell'azienda. Le imprese impegnate in tale ambito stanno riducendo il rischio di transizione e dovrebbero beneficiare della domanda di beni e servizi a basse emissioni di carbonio.
Leader e ritardatari
Ma secondo Thomas Leys, investment director di abrdn, non è così semplice scegliere i vincitori della transizione climatica. Secondo i dati raccolti dal Carbon Disclosure Project (CDP), lo standard di riferimento nella rendicontazione climatica, il 41% delle quasi 5.700 aziende aderenti ha l'obiettivo di raggiungere lo zero netto entro il 2050. E l'81% ha una qualche forma di obiettivo di decarbonizzazione, in aumento rispetto al 76% dello scorso anno. Ci sono altri motivi per essere ottimisti. “Forse in maniera contro intuitiva, è più probabile che le aziende dei settori che avranno più difficoltà a ridurre le emissioni abbiano fissato degli obiettivi; infatti, oltre il 90% delle 534 aziende che hanno compilato i questionari CDP nei settori petrolifero e del gas, dell'acciaio, del cemento, dei prodotti chimici e dei trasporti ha fissato obiettivi Net Zero”, spiega Thomas Leys. Secondo l’esperto si tratta di un aspetto importante, considerando le 29 gigatonnellate di emissioni di CO2 equivalenti dichiarate nel complesso da questi settori (anche se con catene di fornitura sovrapposte). “Quasi la metà di queste aziende (48%) ha fissato obiettivi per raggiungere lo zero netto entro il 2050. Al contrario, il settore delle materie prime agricole, che maggiormente contribuisce al cambiamento climatico, ha fissato il minor numero di obiettivi. Ciò suggerisce un aumento del rischio di transizione per le aziende di questo settore”, dice Leys.
Tuttavia, per l’investment director di abrdn, questo tipo di macro obiettivi di riferimento spesso cela una mancanza reale di intenzioni, sia nell'ambito che nella tempistica dei piani aziendali. “Mentre l'81% delle aziende ha un obiettivo di decarbonizzazione, solo il 24% ha un obiettivo Scope 3, ovvero relativo alle emissioni della catena di fornitura che in genere rappresentano oltre i tre quarti delle emissioni di una società. Circa la metà (48%) delle aziende con obiettivi Scope 3 include meno di cinque delle 15 categorie possibili relative ai propri obiettivi”, evidenzia.
“Molti settori dovranno mettere mano al portafoglio per decarbonizzare, investendo in nuove tecnologie e catene di fornitura. Tuttavia porre un obiettivo di raggiungimento dello zero netto entro il 2050 non basta, perché se è vero che da un lato consente alle aziende di dilazionare le spese di transizione, dall'altra ne aumenta i rischi mentre i concorrenti compiono progressi”, avverte Leys. Dunque per l’esperto è la spesa in conto capitale per la decarbonizzazione il dato fondamentale per interpretare la credibilità di un obiettivo aziendale. “I dati CDP mostrano che l'81% delle aziende con obiettivi zero netto per il 2050 non ha segnalato investimenti in linea con tale transizione. Ne consegue che il target di zero emissioni nette entro il 2050 è un indicatore inaffidabile a livello operativo. Attualmente, un terzo delle utility che ne sono sprovviste sta spendendo più dell'80% del proprio capex per la transizione climatica. I fatti contano più delle parole”, dice Leys.
Non trascurare le emissioni evitate
Le valutazioni degli investitori relative al cambiamento climatico spesso non considerano le emissioni evitate. Si tratta di emissioni che vengono evitate attraverso l'implementazione di tecnologie più pulite, misure di efficienza energetica e altro ancora. “Si pensi ai benefici offerti alle aziende a livello di decarbonizzazione da alcuni prodotti: batterie, turbine eoliche e isolamento degli edifici. L'obiettivo zero netto entro il 2050 potrebbe impallidire rispetto all'impatto positivo di questi prodotti”, avverte Leys che aggiunge: “Gli investitori troppo concentrati sui target sono portati a trascurare le aziende che in effetti trarranno i maggiori profitti dalla transizione energetica. Secondo CDP, nel 2022, 183 aziende hanno fatto registrare un volume maggiore di emissioni evitate rispetto alle emissioni reali. Se corretto, questo le rende probabilmente già ‘net zero’. Tuttavia, quasi la metà di queste organizzazioni (48%) non aveva un target di zero emissioni nette entro il 2050. Ancora una volta, avere un obiettivo per il 2050 non è tutto”, afferma l’esperto di abrdn.
In conclusione secondo Thomas Leys raggiungere lo zero netto entro il 2050 è importante e limitare il riscaldamento globale dovrebbe essere un obiettivo inamovibile dell'intera società e delle aziende. “Tuttavia, i target devono essere di ampia portata e includere tappe intermedie. Inoltre, le emissioni evitate dovrebbero essere prese in considerazione per avere un quadro completo delle attività intraprese dalle aziende a favore del clima. Ecco perché gli investitori dovrebbero guardare oltre i target di zero emissioni nette entro il 2050 al momento di valutare il rischio di transizione”, conclude.