Articolo di educazione finanziaria a cura di Daniele Bernardi, CEO di Diaman SCF.
Per accedere a questo contenuto
Articolo di educazione finanziaria a cura di Daniele Bernardi, CEO di Diaman SCF.
Finalmente è entrata in vigore la MiFID II in tutta Europa. Nonostante sia una normativa perfettibile, con molti pregi e diversi difetti, uno dei principali obbiettivi della normativa è la trasparenza, soprattutto nel rendere espliciti i costi dei prodotti finanziari e dei servizi di investimento offerti.
Carenza di informazioni
Il cliente finale per decenni è stato all’oscuro dei costi reali che sosteneva con l’acquisto di un fondo, di una polizza assicurativa o di qualunque strumento finanziario vi venga in mente. Oggi la MiFID impone agli intermediari di esplicitare in modo chiaro e comprensibile per il cliente i costi presenti negli strumenti finanziari.
Sono curioso di vedere come si comporterà la massa di clienti quando verrà a sapere che il fondo di fondi che ha acquistato su suggerimento del consulente finanziario di una qualsiasi banca in realtà ha costi annui che vanno dal 2% al 4% e oltre. Sono esagerato? Purtroppo no, sedici anni nell’industria mi hanno permesso di capire tanti piccoli aspetti che ai clienti e spesso anche ai consulenti finanziari scappano.
Ma come giustificare una differenza di costi dichiarati e di costi applicati?
Probabilmente qualche voce potrò sbagliarla, perché sto andando a memoria, ma formalmente il TER (ovvero il Total Expense Ratio, rapporto complessivo di spesa rispetto al patrimonio, in italiano) riassume solo alcune delle voci che sono realmente pagate da un fondo.
Il TER raggruppa le seguenti voci:
1) commissioni di gestione
2) commissioni di performance
3) commissione banca depositaria
4) forse qualche altra voce che non ricordo
Nella realtà un fondo è costretto a pagare:
1) il costo di settlement
2) il costo di subscription e redemption
3) Il costo del trasfer agent
4) Il costo della banca corrispondente (se vuole essere collocato in Italia)
5) la tassa annuale della CSSF (qualora sia lussemburghese)
6) la tassa annuale della Consob (qualora sia autorizzato al collocamento in italia)
7) il costo di negoziazione degli strumenti finanziari sottostanti
8) costi legali per ogni cambiamento di prospetto
9) costi di marketing
10) I costi del board (membri più rimborsi spese per meeting)
11) I costi delle comunicazioni agli shareholders (azionisti)
12) Il costo per la quotazione in borsa Italiana (se decide di quotarsi)
13) Il costo per la pubblicazione sui giornali finanziari (obbligatoria)
14) Altre voci di costo che non mi ricordo
Insomma mi sembra che la sproporzione sia evidente tra quanto dichiarato e da quanto effettivamente speso.
Troppi costi
Anche se venissero esplicitate tutte per la trasparenza del cliente, il problema rimarrebbe comunque una urgenza da risolvere, perché è evidente che con il passare degli anni sempre più attori del risparmio gestito hanno pensato bene di ritagliarsi una piccola fettina di torta da mangiare a spese dell’ignaro cliente finale, che magari si lamenta degli scarsi risultati (a ragione) senza comprendere realmente perché.
Ingiuste classifiche
Quando vedo le classifiche sui giornali che confrontano impietosamente i rendimenti dei fondi con dei lindi e puri indici azionari senza alcun costo applicato, mi dispiace che invece di incolpare i gestori non si evidenzi che l’industria del risparmio gestito è diventata negli anni troppo ingorda e troppo costosa, con il risultato che finché i mercati azionari e obbligazionari hanno retto il gioco restituendo rendimenti succulenti, questa inefficienza è stato possibile celarla, ma per il futuro si prospetta un problema enorme da gestire e da risolvere.
Gestione patrimoniale
E abbiamo parlato del primo livello degli strumenti finanziari, se poi ci addentriamo nelle gestioni patrimoniali (strumenti di cui noi siamo advisor ai gestori da sedici anni) il problema si ripresenta, con un attore in più, lo stato che reclama la sua 'fettona' di torta. Alle gestioni patrimoniali e ai conti in deposito hanno pensato bene di applicare una tassa dello 0,15% che si somma alle commissioni di gestione della banca (che giustamente deve prendere perché svolge un lavoro per non creare malintesi), alle commissioni di negoziazione o di transazione, alle spese fisse che spesso vengono applicate.
Polizze assicurative
Per non parlare delle polizze assicurative, che in cambio di indubbi efficientamenti dal punto di vista fiscale hanno quasi tutte creato meccanismi di commissioni a tunnel che costringono il cliente a rimanere immobilizzato per diversi anni se non vuole pagare salate penali di uscita anticipata (che ovviamente consentono di pagare “cicciotte” commissioni al distributore).
Riuscirà la MiFID a sconfiggere tutto ciò e a riportare i costi a livelli “fair” ovvero più equi e onesti? Io nutro dei forti dubbi, sono sempre stato scettico che la normativa, tipicamente stringente, possa portare a far cambiare un mercato in meglio, gli alti costi di compliance per adeguarsi alle sempre nuove invenzioni normative rende la strada in salita e non in discesa.
Performance fee dello Stato
Per finire, se al termine di tutto questo, il cliente finale fosse riuscito a guadagnare qualcosa arriva una commissione di performance cui nessuno può sottrarsi del 26%, perché lo stato reclama la sua parte, per di più creando anche complicazioni nella compensazione di minusvalenze e plusvalenze per rendere un poco più complicato comprendere quale soluzione di investimento sia migliore di un’altra. Ma non è tutto qui, ci sono altri costi occulti che forse nemmeno i consulenti finanziari conoscono bene: il costo della perdita di opportunità.
Architettura aperta
Pochissime banche hanno una architettura veramente aperta, ovvero aperta ad acquistare qualsiasi strumento finanziario. In Svizzera sono molto più avanti, qualsiasi banca può acquistare qualsiasi strumento finanziario con un codice ISIN, ovviamente che sia normativamente approvato, per i loro clienti, magari applicano dei costi esagerati per la transazione, certo, ma almeno mi permettono di acquistare, giusto per fare un esempio, il fondo Hedge Winton Capital, uno straordinario fondo quantitativo basato a Londra.
Quante banche in Italia possono fare altrettanto? Ve lo dico io, nessuna, perché le complicazioni delle banche corrispondenti che devono fare da sostituto d’imposta ha complicato tutti i processi, rendendo complicato acquistare strumenti finanziari “non a catalogo” della banca. Tralasciando tutte le logiche commerciali sottostanti.
Non sono un talebano che urla perché le banche o le società di gestione vendono i propri prodotti, si può creare un portafoglio efficiente anche con una parte di strumenti cosiddetti “della casa”, soprattutto se questa pratica abbassa i costi complessivi applicati al cliente.
Spesso faccio questo esempio: se sono il Mulino Bianco che produce i suoi biscotti, per esempio “le macine”, non vedo perché dovrei vendere “le gocciole” perché sono più buone…
Il vero problema
Il vero problema non è l’utilizzo di prodotti della casa (sperando che siano utilizzati in dosi equilibrate e non esagerate), il vero problema è offrire al cliente solo le gestioni fatte in casa, senza offrire una diversificazione di strategie, di gestori, di approcci al mercato differenti, anche se provenienti da advisors o da gestori diversi che offrano una reale gamma diversificata, quindi migliore per definizione, per il cliente finale. Allora si che è fondamentale il consulente finanziario, per indirizzare il cliente verso le soluzioni di investimento più adatte alle sue caratteristiche.
Se non si adotta un tale approccio, allora forse è meglio una piattaforma di robo advisor che almeno riduce all’osso i costi al cliente e non lo sottopone a dei costi per un non servizio.
Urge trovare una soluzione diversa.
Questo articolo è stato pubblicato in precedenza sul blog di Diaman