Nella bagarre politica, che come sempre precede l'approvazione della manovra finanziaria, tra emendamenti e nuove proposte, spicca la revisione della normativa sui PIR. Contributo a cura di Niccolò De Rossi di Itinerari Previdenziali.
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Contributo a cura di Niccolò De Rossi di Itinerari Previdenziali
Dalla soffitta alle luci della ribalta. I PIR (Piani Individuali di Risparmio) potrebbero salire nuovamente sul trampolino di lancio e da strumento prima ampiamente criticato e poi incolpevolmente abbandonato dagli investitori potrebbero tornare ad assolvere quel compito per cui sono nati e che, nella loro prima formulazione, aveva abbondantemente funzionato (almeno a livello di raccolta). La Legge di Bilancio dello scorso anno, targata governo gialloverde, aveva infatti inesorabilmente bloccato il cammino delle sottoscrizioni da parte degli investitori.
In particolare, l’intervento del legislatore aveva inserito due vincoli di composizione dello strumento per poter beneficiare della detassazione sulle plusvalenze: il 3,5% del patrimonio del PIR doveva essere investito in titoli negoziati sui mercati delle PMI (ad esempio, l’AIM) e un altro 3,5% in azioni o quote di fondi di venture capital. Il risultato è stato di fatto non solo quello di portare a una frenata delle sottoscrizioni, ma addirittura a un deflusso significativo durante tutto il 2019. Come evidenziato infatti dai dati di Assogestioni, se si guardano i numeri effettivi registrati dai PIR negli ultimi 3 anni, nel 2017 la raccolta è arrivata a contare circa 11 miliardi, l’anno successivo circa 3,5 miliardi, per presentare poi il conto in rosso per più di 700 milioni nel 2019.
Una discesa a dir poco vertiginosa che riflette inequivocabilmente come la revisione della normativa dello scorso anno abbia oltremodo ingessato il mercato, creando incertezza tra investitori e asset manager. A seguito dunque delle numerose e corali sollecitazioni arrivate da tutto il settore del risparmio gestito, l’emendamento inserito nel DL Fiscale a firma Sestino Giacomoni (Forza Italia) sembra poter riportare i PIR al loro iniziale splendore.
Il PIR torna a brillare, ma come?
Si è detto di come, seppur con le migliori intenzioni di finanziamento dell’economia reale italiana, il combinato dei “vecchi” vincoli di composizione abbiano bloccato il mercato dei PIR. Ma quali sono le modifiche che potrebbero risollevarne le sorti e quale il mercato potenziale? In prima battuta, gli analisti di Intermonte stimano in 267 le società investibili dai nuovi fondi PIR, per un afflusso nel 2020 pari a circa 3,5 miliardi, se la proposta sarà effettivamente approvata senza ulteriori modifiche.
Ma vediamo allora l’impalcatura generale dello strumento che dovrebbe trovare la definitiva approvazione entro la fine dell’anno: è previsto che almeno il 70% del patrimonio del PIR debba essere investito in strumenti finanziari emessi da imprese italiane (o europee ma con stabile organizzazione in Italia) senza limiti dimensionali della società; al contempo, sparisce il vincolo di investimento del 3,5% del patrimonio in fondi o fondi di fondi di venture capital. Si dispone poi che almeno un 5% del 70% del patrimonio complessivo del PIR sia veicolato specificatamente verso le piccole e micro-imprese, dunque sull’AIM o su mercati analoghi (ExtraMot Pro per le obbligazioni). Non da ultimo, è stato previsto che fondi di investimento e Casse di Previdenza possano procedere alla sottoscrizione di più di un PIR rimanendo comunque sotto il limite del 10% del patrimonio.
Tutto bene quel che finisce bene?
Non proprio. Perché, se da un lato, c’è da accogliere con favore il rilancio di uno strumento che ha effettivamente dimostrato di poter raccogliere ingenti capitali presso il consistente risparmio degli italiani, dall’altro, ci sono almeno due elementi che sembrano essere infinitamente procrastinabili dai decisori politici.
Il primo muove i sui passi dall’evidenza che, da soli, i PIR non possono bastare per sostenere l’economia reale del Paese. Si dirà “meglio di niente”, ma la realtà racconta che spesso i PIR non sono riusciti a veicolare risorse alle piccole e micro imprese e fungere così da finanziamento alternativo al canale bancario. È probabilmente per questo che era stato introdotto il vincolo di investimento nel venture capital, anche se il limite imposto è risultato effettivamente eccessivo se parametrato alle dimensioni del segmento nel mercato italiano. C’è bisogno di una riflessione congiunta tra legislatore, investitori e industria finanziaria per arrivare a soluzioni condivise, soprattutto per incrementare l’offerta di prodotti investibili (in tal senso va la normativa sugli ELTIF).
Come emerso nel corso del secondo ciclo di incontri promosso dal Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali in collaborazione con Borsa Italiana e come emergerà dal successivo Quaderno di Approfondimento "Sostenere lo Sviluppo del Paese: una scelta davvero alternativa? presentato a tutti gli stakeholders il prossimo 22 gennaio, gli interlocutori non mancano e la narrativa del “non si può fare” sempre essere ampiamente superata. Il secondo, più sistemico e in parte collegato al precedente, si basa sull’assenza di una visione organica e lungimirante sul ruolo degli stessi investitori previdenziali/istituzionali e sulla loro possibilità di sostenere il tessuto economico nazionale. In particolare, il Convegno di Fine Anno Itinerari Previdenziali dello scorso 5 dicembre è stato l’occasione per dibattere proprio sul ruolo che questi investitori, ormai maturi e con patrimoni consistenti, possono avere nello sviluppo del sistema Paese.
Premesso che l’obiettivo di fondi pensione e Casse di Previdenza deve rimanere quello di erogare prestazioni pensionistiche complementari e di primo pilastro, cresce anche per questi soggetti la necessità di effettuare investimenti alternativi, seppur in linea con le esigenze dei propri aderenti. L’anomala situazione del mercato obbligazionario, che restituisce rendimenti reali negativi su moltissime emissioni, anche di medio-lungo periodo, costringere anche loro a una riflessione in termini di asset allocation e strategie di investimento per diversificare le fonti di rendimento.
Per andare in questa direzione è auspicabile una seria riflessione sulla possibilità di rivedere il sistema di tassazione di fondi pensione e Casse di Previdenza per agevolarne ulteriormente l’investimento nell’economia reale nazionale e, in generale, sui rendimenti finanziari conseguiti, a maggior ragione in un momento in cui gli stessi si stanno rendendo protagonisti di numerose iniziative in tal senso. La politica dovrebbe poi tornare a incentivare la previdenza complementare attraverso, ad esempio, campagne mirate di educazione previdenziale o l’apertura di una nuova finestra di silenzio assenso, fattispecie che ha dato innegabilmente i suoi frutti quando è stata utilizzata.
In definitiva, ben vengano i PIR e le connesse agevolazioni per i risparmiatori, ma soprattutto in un Paese che cresce dello zero virgola c’è bisogno di qualcosa di più. Agevolare fiscalmente il risparmiatore privato è di certo la giusta strada, ma non aprire con gli investitori istituzionali/previdenziali tavoli di confronto su temi importanti come il sostegno dell’economia reale denota una miopia che non possiamo più permetterci.