Valutazioni e volatilità

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Bill Gross, Warren Buffett, Stanley Druckenmiller sono alcuni tra i più importanti gestori di portafoglio degli ultimi trent’anni. Ciascuno ha dato ai propri co-investitori risultati eccellenti dagli anni ’70-‘80 in poi: Gross è stato a lungo il re delle obbligazioni, Buffet forse il più noto investitore in azioni della storia, Druckenmiller un grande del mondo degli alternativi. L’autunno di queste importanti carriere li vede ancora protagonisti di vivaci dibattiti sui mercati, con interventi che permettono di apprezzarne le opinioni sotto molti aspetti affini, nonostante enormi differenze di stile e approccio alla gestione.

La loro carriera entra nel vivo negli anni ’70, periodo tra i più difficili per la finanza dal dopoguerra. Si tratta di un’epoca di elevata volatilità sui mercati, con l’uscita degli Stati Uniti dal meccanismo di Bretton Woods nel 1971, le crisi petrolifere, la bassa crescita e l’alta inflazione. Decennio caotico sotto tanti punti di vista, questo periodo è visto oggi da questi tre investitori come quello in cui si posero le basi per un trentennio successivo di risultati straordinari per i mercati globali, risultati che hanno beneficiato anche l’investitore medio (o passivo) e non solo i migliori della classe.

Gli anni ’70 videro una combinazione di inflazione e disoccupazione ai massimi dalla Grande Depressione. I tassi nominali di interesse a cui si finanziavano governi e privati a fine decennio erano elevati e anche in termini reali si trovavano su livelli storicamente alti. La fiducia di imprese e privati nel prendere iniziative di investimento e consumo era sui minimi in tutte le economie sviluppate. L’inflazione, in lenta ma continua salita, divenne alla fine del decennio un problema generale. Ma la salita dei prezzi dagli anni ’60 in poi, inizialmente non prezzata nel rendimento dei titoli di Stato, permise, insieme al boom post bellico, una veloce riduzione dei debiti pubblici. Negli Stati Uniti il Federal Debt in percentuale del PIL scese al 30% alla fine degli anni ’70, livello minimo dalla fine della guerra. Oggi lo stesso dato è al 104%.

Una fotografia dei mercati al 31 dicembre 1970 vedrebbe il rendimento del titolo di Stato americano decennale al 10.4%, un tasso di inflazione medio nel decennio concluso di 7.1%, e il rapporto prezzo/utili corrente dello Standard&Poors a 7.42. Il dollar index, una media dei tassi di cambio del dollaro contro le principali valute, aveva visto il dollaro indebolirsi del 30% nel decennio ’60-‘70, fino ai minimi dal dopoguerra. Per gli investitori il decennio appena concluso era stato un disastro, con rendimenti reali negativi per chi avesse investito in modo passivo in obbligazioni e azioni a fine anni ‘60. Warren Buffet ricorda spesso ai suoi investitori come dal 1966 al 1982 (16 anni) il prezzo dell’indice Standard and Poors non andò da nessuna parte, con i dividendi unica fonte di rendimento.

Vennero poi gli anni ’80, la lotta all’inflazione negli Stati Uniti, la crescita della produttività, l’affievolirsi di alcune tensioni geopolitiche. L’alta volatilità, valutazioni basse e un diffuso disincanto delle masse verso gli investimenti finanziari furono il punto di partenza di un rally generalizzato che sarebbe durato quasi trent’anni fino al 2007. Già negli anni ’80 l’inflazione media negli Stati Uniti sarebbe scesa al 5.6% con un rendimento reale delle sole cedole del 4.8% annuo per chi avesse investito in titoli di stato decennali a dicembre del ’79. Gli anni ’80 e ’90 non a caso sono definiti oggi l’epoca della 'Grande Moderazione', una graduale riduzione del costo del denaro e della volatilità di economie e mercati che ha creato un contesto perfetto per gli operatori finanziari.

Le crisi globale del 2008 e in Eurozona del 2012 hanno messo fine a questo lungo rally. La volatilità sui mercati è stata elevata nelle fasi più acute della crisi (2008 e 2012) ed è poi scesa anche grazie agli interventi massicci da parte delle Banche centrali. Qualcosa in questi ultimi trimestri inizia a cambiare: il debito dei consumatori negli Stati Uniti sta incominciando a scendere e i debiti pubblici in Eurozona sembrano sotto controllo, anche se a livello globale stime di McKinsey e del Fondo Monetario Internazionale dicono che l’indebitamento complessivo del sistema ha continuato a crescere. Gli interventi delle Banche centrali e dei governi hanno ridotto la tensione e tentato una strada non drammatica verso una fase di normalizzazione, ma non hanno certo creato le premesse per un altro trentennio di rendimenti reali elevati sui mercati globali: la liquidità immessa nel sistema e gli interventi di quantitative easing, abbassando il costo del denaro sui mercati obbligazionari, aiutano la gestione dei debiti pubblici ma hanno come corollario una tendenza dei mercati più liquidi a restare su valutazioni elevate.

L’elevato livello di indebitamento a livello globale e la bassa volatilità sui mercati sono sostenibili fintanto che le Banche centrali mantengono un ruolo di supporto straordinario ai mercati in attesa che torni un po’ di crescita e di inflazione. Questo ruolo delle Banche centrali resta però così centrale e importante da innervosire non pochi analisti, soprattutto quelli che vedono nelle valutazioni attuali di alcuni indici o tassi un limite alle potenzialità future dei mercati e una indicazione di fragilità.

La vita di un investitore nel 2016 sembrerebbe quindi difficile rispetto ad alcuni decenni fa, sia per un tema di valutazioni sia per un tema di volatilità forzatamente bassa sulle asset class più impattate dal quantitative easing. Diventa quindi necessario cercare nelle poche aree in cui le valutazioni sono state meno impattate dalle politiche monetarie straordinarie, dove hanno dominato tematiche locali o specifiche e su mercati dove la volatilità resta su valori medi e quindi c’è spazio per fare gestione attiva. I gestori che emergeranno nei prossimi anni saranno quelli in grado di muoversi in modo flessibile sui beta tradizionali ma anche cercando premi per il rischio alternativi, strategie di stock picking o in generale stili di gestione che prescindano da una esposizione passiva ai classici beta svuotati di prospettive da quantitative easing e repressione finanziaria.

Se le valutazioni rappresentano un limite difficile da superare, la volatilità bassa di questi anni potrebbe avere invece i mesi, o i trimestri, contati. La ripresa dell’inflazione sembra lontana, ma qualcuno inizia a prezzarla, almeno negli Stati Uniti. Il tema del debito resterà ancora fonte di ondate di avversione al rischio che potranno creare opportunità tattiche. La crescita globale è bassa, ma positiva, per cui alcune Banche centrali cercheranno di riportare i tassi di riferimento su valori positivi, con la possibilità di forti oscillazioni sui mercati obbligazionari come quelli visti tra aprile e giugno del 2015.

I tre grandi investitori citati all’inizio sono stati bravi ad aggiungere valore in un periodo di mercati globali generalmente in salita, trend che ha comunque beneficiato tutti gli investitori mediamente capaci. Ma l’esigenza di buoni gestori attivi sarà ancora più sentita nei prossimi anni, quando in assenza di un trend di fondo al rialzo le maggiori opportunità potrebbe trovarsi nella capacità di muoversi in un contesto di maggior volatilità.