AIFI: gestori italiani “frenati” da fisco e regolamentazione stringente

Markus Spiske Unsplash
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Il mercato del private capital è in una fase di rallentamento, e non basta il contenuto recupero osservato a ottobre. Il problema centrale? I limiti alla struttura di gestori italiani. A sottolineare questa criticità è il Consiglio direttivo AIFI che, nella riunione del 15 novembre, ha analizzato le principali tendenze di mercato individuando una serie di freni al settore.

Anche a livello europeo il primo semestre 2023 ha scontato un forte rallentamento, secondo i dati pubblicati da Invest Europe, l’associazione europea del private capital, l’attività è diminuita del 60%: 32,9 miliardi di euro rispetto agli 81,3 miliardi registrati nello stesso periodo dell’anno precedente. In flessione anche gli investimenti passati da 69,4 miliardi nel primo semestre del 2022 a 32 miliardi di euro nel 2023 (-54%), con una contrazione del 30% nel numero delle operazioni.

In Italia a ottobre si è assistito a una lieve inversione di tendenza: dopo un primo semestre all’insegna della decrescita in tutti i segmenti del mercato del private capital, il Private equity monitor (PEM), osservatorio della Liuc Business School in collaborazione con AIFI, rileva 42 deal di private equity a ottobre, contro i 26 di settembre e i 16 di agosto.

Le difficoltà degli operatori vigilati

E sono gli operatori italiani non vigilati (club deal, family offices, holding) a realizzare il 36% del totale delle operazioni portate a termine dai soggetti domestici. Si aggiungono a questi, gli operatori internazionali che hanno rappresentato oltre il 50% dell’attività d’investimento complessiva realizzata sul mercato italiano. Segnano il passo, invece, gli operatori italiani vigilati. Questa scarsa dinamicità, secondo il Consiglio direttivo dell’associazione italiana è dovuta, da un lato, alla “complessità di raccolta sul mercato domestico che rappresenta un forte vincolo alla loro crescita e al loro sviluppo nel nostro Paese”; dall’altro, a “un regime fiscale che li svantaggia”.

Gli esperti chiamano in causa, a questo proposito, la regolamentazione di Banca d’Italia, che “di fatto assimila i nostri gestori alle banche”, risultando “particolarmente gravosa, specialmente per gli operatori di piccole dimensioni”. Da qui la minore propensione alla costituzione di operatori strutturati nel nostro Paese rispetto a quanto accade a livello internazionale. “Un elemento che differenzia il nostro modello rispetto al contesto internazionale riguarda l’ambito di vigilanza, che non tiene sufficientemente conto della proporzionalità, gravando con maggiori costi sugli intermediari di minori dimensioni” dichiara Innocenzo Cipolletta, presidente AIFI. “La maggior parte dei fondi nasce con piccole dotazioni di capitale e tale condizione andrebbe supportata per raggiungere successivamente una dimensione che sia competitiva sul mercato”.

Il rischio, nei timori dell’associazione, è in definitiva depotenziare l’industria italiana del private capital, “di cui dovremmo invece agevolare la crescita, con un’ampia rete di alleanze internazionali”.