PIR: senza il P2P lending rischiano di essere un grande bluff

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Commento a cura di Antonio Lafiosca, Chief Operating Officer di BorsadelCredito.it.

Nelle ultime settimane è calata qualche ombra su una asset class – quella dei PIR – salutata alla sua inaugurazione all’inizio del 2017 come un’architettura finanziaria senza precedenti in termini di innovazione e dal futuro senza dubbio luminoso.

BorsadelCredito.it fin da principio, pur apprezzando nel merito il tentativo di dare vita a uno strumento di investimento che aiutasse l’economia reale, ne aveva sottolineato i limiti. Il primo di questi limiti è rappresentato dal bacino investibile, che è solo una minima frazione della nostra economia reale. Spieghiamo meglio: pur potendo il PIR investire in società non quotate, e pur avendo il vincolo di destinare un 21% del paniere ai titoli fuori dal Ftse/Mib, era prevedibile – come è puntualmente successo – che si limitasse alle azioni o ai bond più liquidi; parliamo cioè di quelli emessi da società comunque quotate su Star o Aim, in modo che le case d’affari potessero bypassare i costi della ricerca.

Dunque, se ci limitiamo alla Borsa, parliamo di 380 aziende su un panorama complessivo che ne conta 4 milioni. Un modo per ampliare questo bacino sarebbe includere il FinTech. A differenza degli Ifisa britannici, sul cui modello pure sono stati creati, i nostri PIR infatti non consentono di investire nel P2P lending. Anche nell’ultima revisione della normativa, che ha visto l’ingresso del VC nel comparto, il P2P lending è rimasto una Cenerentola.

Nel frattempo tra costi eccessivi dei prodotti e la Borsa in crollo, i piani individuali di risparmio hanno mostrato il loro lato fragile, ovvero come di fatto il beneficio fiscale – la totale esenzione dalle tasse se lo strumento viene detenuto per almeno cinque anni – possa essere completamente eroso da questi effetti collaterali. Il che non toglie che comunque si perda meno che investendo in un fondo tradizionale che non goda del beneficio fiscale: ma tant’è, tra il perdere poco o perdere di più, il risparmiatore sicuramente non ha nulla da festeggiare.

E, per finire, spunta un problema legato alla revisione dello strumento, come previsto nella manovra di bilancio: sui PIR, che hanno masse in gestione di 15 miliardi di euro, grazie alla domanda fortissima delle famiglie italiane, pende una spada di Damocle che rischia di ingessarli completamente. Con le modifiche previste nel testo della legge di Bilancio 2019, infatti, i piani individuali avranno l’obbligo di investire il 3,5% del totale sul mercato quotato dell’Aim e il 3,5% su azioni o fondi di venture capital. Novità che hanno generato opinioni discordanti tra gli operatori del settore. Alcuni chiarimenti dovranno arrivare con i decreti attuativi previsti entro 120 giorni. Ma nel corso di questi tre mesi, gli investitori saranno orfani di un mercato di prodotti conformi alla nuova normativa. E le case d’affari hanno iniziato a bloccare la sottoscrizione.

Anche in questo caso, comprendiamo l’intenzione del legislatore e la apprezziamo, perché riconosciamo il tentativo di favorire la crescita del segmento delle PMI e delle start-upma, come al solito, si rischia di fare un nuovo errore nell’attuazione. Sia perché, ancora una volta, si esclude il cuore pulsante dell’economia fatta delle micro imprese, ignorando il P2P lending, sia perché si sottovaluta che, mentre le banche continuano a stringere le maglie del credito, c’è un esercito di innovazione che avanza e che sostiene le imprese che necessitano di liquidità. Il FinTech, grande assente laddove si decide, protagonista laddove si agisce.