Su tutto, resta l’assenza di “una definizione normativa riconosciuta di greenwashing”. Il progress report pubblicato da Esma a maggio dello scorso anno ha chiarito come il fenomeno sia da collegare “con una informazione non corretta perché sono state fornite delle informazioni false o perché sono state omesse delle informazioni”, ma il greenwashing può essere verificato in tutti gli stadi della vita del prodotto, “dall’ingegnerizzazione alla distribuzione, al momento della gestione, collegandosi poi a tutte le fasi della catena del valore (ad esempio nell’attribuzione di un rating)”. In definitiva, il punto di arrivo di tutte le iniziative che vedono coinvolte le autorità di vigilanza sta nell’assicurare “che i partecipanti ai mercati finanziari adottino dei processi che risultino robusti e adeguatamente sostanziati”.
Questo che cosa implica? La risposta di Consob è chiara: “Da un punto di vista strategico e di business, che siano assunte delle decisioni ben precise in merito ai profili ESG e sia conseguentemente definita la gamma dei prodotti da offrire. Dal punto di vista operativo, questo implica la definizione di processi che siano rispondenti rispetto a tali scelte di business, nonché la messa a punto di un efficace sistema dei controlli in grado di fare una pronta detection di eventuali divergenze tra quanto viene effettivamente svolto e le policy previamente definite. Il tutto deve poi confluire in una disclosure che metta in grado l'investitore finale di recepire gli elementi essenziali dei profili ESG del prodotto e di addivenire a delle consapevoli scelte di investimento”. In tale contesto, dal punto di vista regolamentare risulta cruciale “trovare la combinazione ottimale tra flessibilità volta alla valorizzazione dell'autonomia organizzativa dell'intermediario da un lato e, dall'altro, la chiusura di quegli spazi che possano dar luogo a greenwashing”.
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