La partita del 2023 si gioca (ancora) su inflazione e geopolitica

Giordano Lombardo News
Giordano Lombardo, foto ceduta (Plenisfer)

Contributo a cura di Giordano Lombardo, CEO e Co-CIO Plenisfer Investments SGR.

Quando si tratta di vaticinare le prospettive economiche o di mercato dei prossimi mesi, in Plenisfer preferiamo limitarci a descrivere lo scenario di riferimento (baseline) per capire che tipo di partita stiamo per giocare e su quali campi. Ne abbiamo identificati due.

In primo luogo, inflazione e banche centrali: sarà ancora questa la variabile chiave che dovrebbe determinare la direzione dei mercati finanziari nel 2023. È stato il tema dominante del 2022 e l’effetto sui mercati finanziari è stato brutale: il 2022 è stato il primo anno, dal 1870, in cui sia le azioni che i bond USA sono scesi entrambi più del 10%!

L’inflazione, pur rimanendo alta, ha cominciato a recedere alla fine dell’anno scorso. Secondo il consensus la Fed potrebbe riabbassare i tassi già nella seconda metà di quest’anno. L’attesa è che si possa tornare a una situazione di stabilità dei prezzi, tassi di interesse bassi e crescita moderata, ma sufficiente a mantenere piena occupazione.

Noi non ne siamo affatto convintiPensiamo che il new normal sarà la repressione finanziaria e non si tornerà allo status quo pre-2021, per una serie di ragioni:

1)    I tassi di interesse reali, se misurati con l’inflazione effettiva, sono ancora negativi.

2)   I rendimenti dei bond USA a lungo termine sono coerenti con un’ipotesi di recessione, sia pur lieve, ma non si conciliano con aspettative sugli utili ancora robuste o con il livello degli spread corporate, che rimangono inferiori ai massimi storici.

3)  Gli effetti congiunturali della riapertura della Cina dopo tre anni di severo lockdown sono inflazionistici (materie prime ed energia).

4)  Permangono tutti i fattori inflazionistici secolari: aumento dei conflitti geopolitici, demografia, bassa produttività, scarsità strutturale di materie prime ed energia, etc.

È possibile che l’inflazione continui ad arretrare nei prossimi mesi ed è plausibile una lieve recessione. Ma entrambe le cose non autorizzano a dare per vinta la lotta all’inflazione.I precedenti storici ci insegnano che l’inflazione procede ad ondate e che per batterla occorre una dose di stretta monetaria ben maggiore (tassi reali positivi) e somministrata più a lungo di quanto fatto finora.

Ma fino a che punto le Banche centrali sono disposte a spingersi? Secondo noi la risposta più probabile è: non fino alla fine. Non potranno permetterselo a causa dell’enorme quantità di debito pubblico e privato che ha già raggiunto livelli critici in diversi paesi - dal 20% in Francia al 15% negli USA- e il cui costo aumenta al crescere dei tassi di interesse. Questo farà sì che le banche centrali non potranno essere troppo determinate nella lotta all’inflazione, pena rendere il costo del servizio del debito troppo oneroso. Dovranno lasciare che sia l’inflazione a fare il lavoro “sporco” di riduzione in termini reali del costo del debito, con pesanti ripercussioni in termini di redistribuzione di valore: dai risparmiatori e creditori a favore dei debitori (soprattutto gli Stati). Ci troveremo, quindi, in uno scenario di repressione finanziaria.

Dovremo imparare a convivere con un’inflazione più alta di quella sperimentata negli ultimi 20 anni, e con un livello di tassi di interesse insufficiente a preservare il valore reale della moneta e dei risparmi. Un bel cambio di paradigma per chi investe.

Il secondo campo di gioco del 2023 sarà la geopolitica. La nostra ipotesi di base è che il quadro geopolitico rimanga instabile perchéi principali conflitti sono strutturali e di non facile risoluzione in un periodo di debolezza ciclica dell’economia mondiale.

Lo scenario più probabile per la guerra in Ucraina è di una prosecuzione del conflitto.  I rischi di coda sono l’utilizzo di armi nucleari da parte della Russia, ma anche un taglio unilaterale della produzione di petrolio russo, che porterebbe ad uno shock petrolifero a livello globale.

Un altro teatro di crisi potenziale rimane il Medio Oriente. Dopo il mancato accordo tra Stati Uniti e Iran sul tema delle armi nucleari, un attacco iraniano alle infrastrutture energetiche dei paesi dell’area è plausibile ed è una soluzione che il regime iraniano ha già adottato in passato in periodi di tensioni interne. Anche in questo caso il rischio di coda è uno shock sul prezzo del petrolio.

In Cina, il Presidente Xi Jinping mira a stabilizzare l’economia con l’inversione a U nella politica di contenimento del Covid e con la continuazione di politiche monetarie e fiscali accomodanti. In questo caso lo shock è positivo, in termini di stimolo alla domanda interna. Ne dovrebbe derivare anche un incremento della domanda globale di materie prime e metalli industriali con conseguente ulteriore spinte inflazionistiche globali.

Un attacco militare cinese a Taiwan appare improbabile nel breve periodo, ma non è da escludere nel medio-lungo, dato che l’alternativa “pacifica” di un’integrazione analoga a quella di Hong Kong, non è considerata accettabile da Taiwan.

Infine, l’amministrazione americana continua nella propria politica di contenimento della crescita cinese sul piano militare, tecnologico ed economico, soprattutto ricorrendo a controlli sulle esportazioni di tecnologie decisive, come i semiconduttori. Lo scenario di rischio in questo caso è il ricorso da parte USA a ulteriori sanzioni secondarie per assicurarsi che i paesi alleati adottino in pieno le restrizioni alle aziende cinesi. In questo caso le tensioni politiche con la Cina e i rischi di un attacco a Taiwan sono destinati ad aumentare.

La conclusione di questa breve e non esaustiva carrellata dei rischi geopolitici è che le tensioni emerse negli ultimi anni ed esplose nel 2022 non hanno delle chiare soluzioni nel breve periodo, con l’implicazione che la volatilità sugli asset rischiosi rimane elevata.  Verranno influenzate azioni e obbligazioni, ma anche materie prime e valute. La maggior parte dei rischi elencati ha inoltre implicazioni inflazionistiche negli scenari di coda, e solo la cessazione delle ostilità in Ucraina ha implicazioni deflazionistiche (calo del prezzo del petrolio).

Inadeguatezza del modello 60/40

Una delle nostre tesi di fondo è che il modello di diversificazione tradizionale basato sui due pilastri azioni-obbligazioni (modello 60/40), che ha ben funzionato nella fase quarantennale di discesa dei tassi, sia in crisi.

Il 2022 ha dimostrato la fondatezza di tale tesi, con azioni e obbligazioni entrambi in (forte) discesa. Questo non vuol dire che un portafoglio bilanciato non possa registrare nuovamente performance positive in singoli anni, anche nel 2023! Infatti, in campo obbligazionario, è stata ristabilita una combinazione più accettabile di rischio/rendimento dopo il crollo delle quotazioni del 2022, anche se gli spread delle obbligazioni corporate non scontano ancora i livelli raggiunti in passato in periodi di recessione o rallentamento globale. In campo azionario, permangono aree di sopravvalutazione che sono state corrette solo parzialmente (Big Tech USA), ma in alcuni casi (Europa, Giappone, mercati emergenti) le valutazioni appaiono ragionevoli, anche se non tali da costituire una difesa robusta in caso di recessione.

L’inadeguatezza del modello 60/40 appare ancora più evidente in un contesto di repressione finanziaria e instabilità geopolitica. In questo scenario saranno infatti da evitare i mercati dei bond governativi di quei paesi intenti ad attuare la repressione finanziaria, ossia i maggiori paesi sviluppati, mentre l’instabilità geopolitica, renderà gli asset più rischiosi, come le azioni, più esposti all’aumento della volatilità di mercato.

Che fare, dunque?

L’obiettivo principale diventa la protezione del valore dei portafogli in termini reali. Non potranno, quindi, mancare le materie prime e i metalli (sia industriali che preziosi) come componente strutturale del portafoglio. La componente liquida (cash) andrà considerata in una funzione diversa da quella tradizionale (asset privo di rischio), ossia per le caratteristiche di opzionalità che ne fanno un asset strategico in periodi di volatilità. Il premio di liquidità, che ha favorito il ricorso massiccio all’inserimento nei portafogli di asset privati (private equity e private credit) andrà riconsiderato in modo strutturale. Sia per la presenza di una forte componente di leva finanziaria nella passata generazione di rendimenti - oggi messi a rischio dall’aumento dei tassi di interesse -, sia perché in una fase di repressione finanziaria e di volatilità endemica il valore strategico degli asset liquidi (liquidabili) aumenta strutturalmente.

Infine, nel nuovo paradigma di repressione finanziaria e volatilità viene messo in discussione il tradizionale processo di investimento in due step: asset allocation e stock picking, proprio per la difficoltà delle singole asset class di svolgere la loro funzione come in passato. Occorre un nuovo metodo, che noi abbiamo individuato nella “decostruzione” delle asset class tradizionali per “ricostruirle” in strategie non correlate tra loro, utilizzate in funzione dell’obiettivo di rischio/rendimento. È l’approccio adottato fin dal lancio di Plenisfer e al momento sta dando buoni frutti. La strada è ancora lunga e la partita da giocare nei prossimi anni resterà complessa. La condizione per vincerla è avere ben chiaro in che campo si sta realmente svolgendo e quali sono le (nuove) regole del gioco.