In concomitanza con la Giornata internazionale dei diritti della donna FundsPeople ha raccolto le testimonianze di sei professioniste in ruoli di vertice in Italia in un settore a forte predominanza maschile.
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In concomitanza con la Giornata internazionale dei diritti della donna FundsPeople ha raccolto le testimonianze di sei professioniste in ruoli di vertice in Italia in un settore a forte predominanza maschile.
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La strada da fare è molta. Nonostante i numerosi passi in avanti l’asset management è ancora un settore a forte predominanza maschile. E l’uguaglianza di genere un traguardo tutto da conquistare. Lo testimonia la bassa presenza di donne in alcuni dei ruoli chiave dell’industria. Secondo una ricerca di Heidrick & Struggles del 2021 solo il 3% dei CEO dei 50 più grandi gestori mondiali è donna. E un recente sondaggio di BNY Mellon rivela dei 100 asset manager intervistati nella meta dei casi solo 10% o meno dei propri gestori o analisti è donna. E questo divario si riflette in remunerazioni inferiori e in politiche di gestione delle risorse umane per colmare il gap ancora tutte da sviluppare.
In concomitanza con la Giornata internazionale dei diritti della donna FundsPeople ha chiesto alle responsabili del mercato italiano degli asset manager stranieri una testimonianza sulla rappresentanza femminile nel settore a partire dalla loro esperienza professionale. Ne emerge uno spaccato ricco di spunti e di riflessioni sulle numerose sfide per la parità di genere nell’industria. Un quesito emerge con urgenza dalle voci di queste professioniste riconosciute in un settore ancora in ritardo per la partecipazione femminile: per restare competitivo l’asset management può davvero permettersi di rinunciare ai talenti donna?
“La necessità di più leader donne non è mai stata così critica, e molte analisi sostengono che la maggiore diversità di genere, anche tra gli alti dirigenti, porti a creare società significativamente più redditizie”, osserva Nadia Bucci. Secondo la manager le stesse società di gestione hanno la responsabilità di creare politiche e opportunità migliori per le donne. Aegon AM ad esempio da quattro anni pubblica il Gender Pay Gap che fotografa forti miglioramenti tra i divari. Inoltre, il gestore ha raggiunto l’obiettivo di avere il 30% di donne in ruoli dirigenziali e nominato un responsabile globale dell'inclusione e della diversità.
Eppure Nadia Bucci osserva: “Ci rendiamo conto che non siamo ancora dove vogliamo essere. Continueremo a sfidare noi stessi e a premere per una più radicata rappresentazione femminile”.
1/6Paule Ansoleaga Abascal è attiva in prima persona nella promozione di una finanza più inclusiva tramite il think tank BCCI Inclusive Finance, lanciato nel 2015 assieme a Simonetta Cristofari, sales manager di Crédit Mutuel IM. Secondo Ansoleaga Abascal vi è la necessità di un modo inedito di pensare l’economia in chiave sostenibile. Un cambiamento di paradigma in cui le donne possono giocare un ruolo determinante. “Dobbiamo dare alle donne la possibilità di co-progettare il futuro, incorporando i tratti e i valori femminili nel nuovo paradigma di sviluppo”, sostiene. “Empatia e compassione sono senza dubbio fondamentali per promuovere la sostenibilità”, spiega.
“Quando le persone si trovano a dover prendere decisioni, il fatto che mettano in primo piano il benessere degli altri, fa si che sia più probabile che prevedano le giuste implicazioni delle loro scelte”, dice. “E questo si caratterizzerà sempre per il fatto che si prenderà in considerazione il benessere di tutti i soggetti coinvolti, della natura e delle generazioni future”, afferma.
2/6“Senza meritocrazia si rinuncia a talenti, competenze, punti di vista che nessuno che voglia rimanere competitivo può davvero permettersi di perdere”, dichiara Stefania Paolo. Nella propria carriera professionale ha potuto assistere a un cambiamento positivo nel modo in cui l’industria valorizza i talenti femminili. Tuttavia ammette che la strada da fare da fare è ancora molta: “È evidente a tutti che le donne in posizioni apicali sono ancora poche, in parte perché la strada verso la gender parity è partita in salita dopo decenni di predominanza maschile nel mondo della finanza, e in parte perché non tutte le aziende adottano politiche HR atte a rimediare al gap”, spiega.
“Come country head sono fiera di costituire un’eccezione positiva. BNY Mellon IM è da sempre pioniere nell’inclusività. Anche il nostro CEO, Hanneke Smits, è una donna”, dice.
3/6Secondo Gabriella Berglund nella gestione di portafoglio, dove le remunerazioni sono più elevate, la presenza femminile è minoritaria soprattutto in Italia. Tuttavia c’è un’eccellente opportunità legata allo sviluppo costante della gestione ESG: “In quest’ambito le donne possono avere un’influenza, una sensibilità e sicuramente una presenza superiore in futuro”, afferma. “Spesso il ruolo di responsabile della parte analitica ESG delle società di gestione è ricoperto da donne. Lo stesso vale per fondi pensioni o in generale portafogli istituzionali, dove la presenza femminile in generale è superiore e lo è ancora di più per l’analisi ESG”, continua. “Se però analizziamo i vertici di queste società, le donne rimangono purtroppo una rarità assoluta”, ammette.
Per affermarsi in ruoli dominati dalla presenza maschile, la manager invita le donne ad approfittare della ondata di lungo termine ESG, valorizzando il fattore S, sociale, e prendendone il più possibile il controllo. “In questo modo potranno anche riuscire a scalare meglio le piramidi organizzative delle società che saranno obbligate a essere sempre più attente ai valori umani e non solo ambientali, da applicare al loro interno”, analizza.
4/6“La parola ‘gestore’ in Italiano ha un femminile, ma il vocabolario Treccani avverte che ‘gestrice’ è un sostantivo raro. Raro come la presenza di donne che si occupano di gestione sui trading floor”, spiega Alexia Giugni.
Ma le cose stanno cambiando: “Troviamo più donne nelle divisioni di coverage dei clienti e in funzioni importanti, come la ricerca e l’analisi degli investimenti”, osserva. Inoltre, sta cominciando a cadere quello che la manager chiama il 'taboo del risk taking', cioè la convinzione che le donne siano meno capaci degli uomini di prendere rischi o di resistere alla pressione e alla volatilità dei mercati quando si deve gestire una posizione. “Ci sono, al contrario, degli ottimi motivi per cui una donna può fare molto bene nel nostro settore”, continua. “Per esempio, la disciplina nel gestire il rischio e la capacità di lavorare in gruppo. Qualità fondamentali in un settore in cui sempre di più serve un approccio di squadra nella gestione e non più solo una superstar e dove la crescente complessità dei mercati richiede capacità di dialogo e di ascolto di punti di vista diversi”, conclude.
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In questi giorni di tragiche notizie di guerra, Laura Nateri invita a riflettere sul carattere discriminatorio dei ruoli che storicamente la società conferisce in base al genere: “Gli uomini dell’Ucraina non possono lasciare il Paese perché possono essere richiamati alle armi. E le donne? Perché solo gli uomini devono trovare il coraggio di andare in guerra? Perché non possono dividere con le donne questo pericolo?”, si domanda la professionista. “È un caso di discriminazione al contrario. Storicamente perpetuato, che divide la società in due generi, quello forte e quello debole”, continua. Molto secondo Nateri ha a che fare con il retaggio di un’educazione che da sempre spinge gli uomini a prendere maggiori rischi, e spesso in casi estremi come le guerre senza che abbiano avuto scelta e non per una giusta causa.
Individuando un legame con la presenza ridotta di donne nei ruoli apicali di un’azienda, la manager afferma che il divario sia in parte anche imputabile a una mancanza di candidature in questi ruoli. “L’ho sperimentato più volte in questi anni, anche nelle posizioni di ingresso, dove le statistiche universitarie ci raccontano che non è un tema di competenze”, commenta. “E allora forse si tratta proprio di coraggio, dobbiamo farci avanti e rischiare un po’ di più, per avere più rappresentanza, più voce in capitolo, più influenza nei processi decisionali”, conclude.
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