Buyback azionari: cosa sono? Rappresentano davvero una forma di remunerazione degli azionisti?

Borsa, mercati
Foto: Nicholas Cappello, Unsplash

Negli ultimi anni i buyback, o riacquisti di azioni proprie, sono diventati una delle modalità preferite dalle società per remunerare gli azionisti. Ma da qualche tempo circola un interrogativo insistente: bisogna smettere di considerare i buyback azionari come una forma di remunerazione dell’azionista? 

In questa voce del Glossario FundsPeople analizziamo la definizione di riacquisti azionari, passiamo in rassegna i vantaggi che offrono alle società e agli azionisti e cerchiamo di capire perché qualcuno ritiene che non possano essere considerati equiparabili ai dividendi.

Cosa sono?

I riacquisti azionari sono un meccanismo di cui dispongono le società per poter acquistare azioni proprie emesse in precedenza sul mercato e annullarle, eliminandole dal listino.

Negli ultimi anni le società hanno fatto sempre più ricorso a questa possibilità. Stando a un rapporto di Janus Henderson, nel 2022 i buyback sono aumentati del 22% su scala mondiale toccando la cifra record di 1310 miliardi di dollari, un importo di poco inferiore a quello distribuito agli azionisti sotto forma di dividendi.

E si prevede che nel 2023 i riacquisti di azioni proprie effettuati dalle società incluse nell’S&P 500 supereranno 1000 miliardi di dollari in un solo esercizio per la prima volta nella storia. Per quanto riguarda il nostro Paese, da inizio anno questa pratica risulta particolarmente diffusa nel settore finanziario. Quattro delle prime cinque banche italiane (Unicredit, Banco BPM, BPER Banca e Intesa Sanpaolo) hanno annunciato riacquisti azionari per un importo complessivo di svariati milioni di euro, e questo prima dell’ultimo trimestre dell’anno.

Quali vantaggi offrono i buyback?

Sono diversi i motivi che possono spingere una società a riacquistare azioni proprie, ma forse quello principale è la sottovalutazione del titolo in borsa.

Uno dei vantaggi di questo tipo di operazione, infatti, è che la riduzione del numero di azioni in circolazione sul mercato fa incrementare la quota detenuta da ogni azionista.

Inoltre, i riacquisti stessi determinano un rialzo della quotazione: se il numero di titoli diminuisce, il valore unitario aumenta, e di conseguenza il prezzo sale. In teoria, ne beneficia a cascata anche l’utile per azione (EPS).

Il problema è che questi vantaggi offerti sulla carta dai buyback sono di carattere futuro, diversamente dai dividendi, che vengono versati sulla base degli utili effettivamente realizzati dalla società nel passato.

Quali inconvenienti presentano?

Con queste operazioni, una società quotata non utilizza la liquidità di cui dispone per distribuire dividendi, accantonare riserve di capitale o investire in nuovi progetti, ma per riacquistare capitale sul mercato e annullarlo, riducendo il volume complessivo dei mezzi propri.

Una delle critiche che vengono rivolte più spesso ai buyback è che se vengono effettuati su base continuata finiscono per ridurre la liquidità e il flottante delle società in questione.

L’altro grande svantaggio è che la liquidità impiegata per riacquistare azioni proprie non viene investita nello sviluppo e nella crescita della società. Di fatto, in questo momento ci troviamo di fronte a una transizione digitale e ambientale che impone alle aziende (ora come in futuro) di effettuare investimenti molto ingenti, che dovranno essere finanziati mediante un mix di capitale proprio e capitale di prestito.

Si tratta o no di una forma di remunerazione dell’azionista?

Il riacquisto di azioni è uno dei modi in cui le società possono impiegare la liquidità disponibile in cassa, alla pari dello stacco dei dividendi. Entrambi sono generalmente considerati valide forme di remunerazione degli azionisti, ma sono in molti a pensare che le due alternative non siano equiparabili.

Infatti, il buyback favorisce gli azionisti che mantengono la posizione nella società e decidono di non vendere: viene pubblicizzato come una forma di remunerazione di tutti gli azionisti, alla pari con la distribuzione di un dividendo, ma per definizione non può esserlo, né a priori né a posteriori. Se l’azienda compie la scelta giusta (e il titolo è effettivamente sottovalutato dal mercato), ne usciranno perdenti gli azionisti che hanno venduto la loro partecipazione e vincitori quelli che hanno mantenuto l’investimento; in caso contrario, l’esito sarà quello opposto. È impossibile che l’impatto sia positivo per tutti gli azionisti.

I due tipi di operazioni differiscono anche sul piano del trattamento fiscale in base alla tassazione italiana. I redditi da dividendi sono soggetti a ritenuta alla fonte a titolo di imposta del 26%, mentre in caso di riacquisto e annullamento di azioni proprie l’azionista restante non percepisce alcun pagamento e non è quindi soggetto a tasse o imposte.