Le grandi famiglie imprenditoriali guardano sempre più alle dinamiche sostenibili e all’economia reale. Brambilla (Itinerari Previdenziali): “I FO si configurano, a tutti gli effetti, come investitori istituzionali”.
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I Family Office, per i loro patrimoni e per l’impatto che hanno sullo sviluppo del Paese, sono da considerarsi “a tutti gli effetti” investitori istituzionali. È una classificazione determinante quella indicata da Alberto Brambilla, presidente del Centro Studi Itinerari Previdenziali, al termine dell’Annual Meeting Family Office, realizzato con collaborazione con S&O Multi Family Office, che si è tenuto lo scorso 13 giugno a Milano. Numerosi i protagonisti succedutisi sul palco nel corso dell’evento, dalle società di gestione che si interfacciano con queste entità, alle esperienze dirette di chi lavora con le grandi famiglie imprenditoriali e si rapporta con soggetti il cui operato (in termini non soltanto finanziari ma anche, ad esempio, filantropici) ha un impatto diretto sull’economia del Paese. Investitori istituzionali, dunque, in quanto come enti previdenziali o fondazioni bancarie “operano per l’incremento e la conservazione del proprio patrimonio” e si muovono nell’alveo di una “metamorfosi” in atto: “Dalla qualità alla sostenibilità dell’investimento, quindi il passaggio dagli investimenti tradizionali a quelli innovativi, magari decorrelati rispetto al business dell’azienda, ma anche molto vicini alle transizioni che ci attendono. In primis, quella demografica”, sottolinea Brambilla.
I grandi cambiamenti
Tra le tendenze che si configurano ci sono quelle che mirano all’economia reale (con un forte incremento dell’attenzione per gli investimenti in private equity e private debt) e quelle che guardano alla sostenibilità. “Abbiamo vissuto un decennio di tassi bassi, che hanno ‘messo il turbo’ ai mercati privati in masse e multipli, cui sia gli investitori istituzionali sia i family office hanno rivolto la propria attenzione”, sottolinea Emanuela Musci, founder S&O Multi Family Office, che avverte tuttavia come “con il livello raggiunto oggi dai tassi, questi mercati dovranno confrontarsi con un efficientamento reale dal punto di vista operativo degli investimenti sottostanti. Il valore arriverà dalle stesse capacità imprenditoriali degli operatori di private equity di selezionare aziende che abbiano effettivamente un potenziale innovativo di prodotto o di processo”. Musci, in sintesi, delinea un “ritorno al private equity come strumento di imprenditorialità”.
Al contempo “grandi processi come il cambiamento demografico creano anche grandi opportunità di investimenti”, afferma Michele Calcaterra, senior lecturer finance, SDA Bocconi nel suo intervento che introduce l’avvio dei lavori della mattina. Calcaterra indica, in particolare come stia “mutando il concetto stesso di asset allocation: dalla geografia al tema” e parla di un cambiamento “secolare” di cui sono motore anche gli SDGs in quanto “opportunità in cui si sta declinando il tema di questa epoca”.
L’asset allocation strategica
Certo, gli attuali mutamenti del mercato, pur modificando e “aggiornando” gli ambiti di interesse dei grandi patrimoni, non hanno allontanato le famiglie imprenditoriali dall’investimento azionario nell’asset allocation strategica, lo confermano Manuela Mezzetti, CEO Mezzetti Advisory Group e Uberto Barigozzi, Studio Barigozzi, Partner Libra Fiduciaria Srl. In questa fase, nota Giorgia Sanchini, investment advisory Alvarium – Tiedemann “osserviamo una preferenza degli investitori nel rimanere più liquidi che illiquidi” e sottolinea come anche il fixed income mostri “un’attrattività diversa rispetto agli ultimi anni”. In ogni caso, come rimarca Nicola Perali, co-founder Panrhema SCF, è importante mantenere solide le strategie di asset allocation: “Le nostre decisioni – afferma – rimangono saldamente ancorate a orizzonti temporali e obiettivi del cliente e non possono dipendere da obiettivi di breve termine”.
Mutazioni in atto
Nella mutazione in atto, tuttavia, diventa determinante anche il ruolo del venture capital, tema oggetto della tavola rotonda introdotta da Francesco Cerruti direttore generale Italian Tech Alliance che richiama come il 15,3% degli investimenti in venture capital in Italia arrivino da “investitori privati”, categoria che comprende family office, appunto (per quasi 297 milioni di euro) e SGR team (per 67,3 milioni). Da lì il confronto tra operatori e family office sulle opportunità future dell’investimento in questa particolare asset class. Confronto confluito nel tema finale, introdotto da Josip Kotlar, professore associato di Strategia e Imprese familiari del Politecnico di Milano che, nel richiamare i dati dell’osservatorio del PoliMI, indica che “qualcosa sta cambiando” nelle famiglie italiane. Un tema importante, rimarca Kotlar (anche a conferma e supporto di quanto anticipato dai precedenti ospiti) è la definizione degli obiettivi della famiglia di imprenditori, che possono essere di carattere finanziario ma anche non finanziario (Kotlar li chiama “famigliocentrici”) “come il sentirsi parte di un gruppo familiare, l’idea di lasciare il proprio nome inciso nei decenni a venire”. E il family office come si configura in questo tracciato? Appunto come “un’unità organizzativa e concreta che ha due elementi fondamentali: la diversificazione del patrimonio e un elemento di generatività sia in termini familiari sia imprenditoriali, cioè veicoli atti a creare nuova ricchezza oltre a mantenere quella esistente”. Da lì l’intervento di quattro ospiti con esperienze complementari: la visione di questo mestiere “con una logica molto imprenditoriale”, come sottolinea Claudio Dimarco, direttore Lunelli Holding e la necessità, riportata da Ana Kuhtic, responsabile investimenti Viris SpA di “avere una visione d’insieme” nella gestione dei grandi patrimoni. Attività, questa, possibile in un family office, mentre il “tradizionale modello bancario consulenziale vede solo una parte”. Questa visione di insieme diventa poi, tanto più importante, quanto più si agisce in termini di diversificazione (anche con l’apertura all’economia reale e al private equity, come detto). E questo rientra anche nel ragionamento di Gian Paolo Rivano, CEO Amaranto Investment Sim che indica come il ruolo della SIM sia “un elemento attivo, sia con i clienti sia nella scelta del management delle imprese investite”. Infine lo sguardo va anche al futuro, alle next generation che entrano nella gestione dei grandi patrimoni. La capacità di investire nell’innovazione si coniuga, in quanto richiamato da Edoardo Boroli, partner Mega Holding, ossia con la necessità di generare un impatto positivo.